(Testi G. Bonaveri, Musica A. D'Urso, G. Bonaveri)
Da millenni abitavo in mezzo al mare,
come un cucchiaio conficcato in un budino:
sopra la testa un alto cielo azzurro,
sotto ai miei piedi, un altro cielo uguale.
Invece un giorno ipotizzai un nuovo mattino
così decisi ingenuamente di salpare
verso altra vita, ben oltre la deriva
che l’esistenza mia sembrava assecondare.
Poi all’improvviso Tempesta mi sorprese:
Oceano, in piedi, mi bloccava dal terrore,
d’un solo schianto la barca mia si arrese
e naufragai sulle spiagge dell’errore.
Chiamatemi pure matto,
che il seme della follia
non è un difetto,
non è una malattia.
Io sono l’unico che un numero non ha:
non ha indirizzola vera libertà.
Perciò si dica matto,
che è meglio emarginare
chi vive come un gatto,
chi sceglie di restare
ai margini del mondo
dove non c’è risposta
per chi ha toccato il fondo
e ancora non gli basta.
Io da quel giorno non conosco pena
e non agisco per le cose che ho imparato,
l’ininfluente leggerezza del passato
è come un cane che mi spinge dalla schiena:
azione pura in questo eterno presente
non ho più un luogo, lo spazio sono io.
Sono il fenomeno sfrontato e impertinente,
la metafora perfetta e indecifrabile di dio.
Chiamatemi pure matto,
che il seme della follia
non è un difetto,
non è una malattia.
Sono l’arcano
che un numero non ha:
è il prezzo onesto
della mia libertà.
Perciò si dica pazzo
senza troppo indagare,
schivando l’imbarazzo
di chi non vuol capire
chi vive come un gatto
oggi come domani;
gridatemi pure matto:
siete così lontani.