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Disco della settimana su L'ISOLA CHE NON C'ERA

di Alberto Bazzurro

Alberto BazzurroDisco complesso, quest’ultimo del quarantatreenne cantautore bolognese, evidentemente calato in una fase di particolare fervore creativo. Disco che suggerisce, induce, diverse chiavi di lettura. La dicotomia più evidente è tra passato e presente, simbolo e realtà, metafora e denuncia. E già qui, di fatto, ci poniamo su sei diversi piani prospettici, perché ogni diade differisce in qualcosa dalle altre: da un lato, comunque, ancestralità, misticismo, storia mista a leggenda, esoterismo (il codice simbolico evocato è con tutta evidenza quello dei tarocchi), dall’altro la volontà di utilizzare questo intricato coacervo di “segni” per far passare, più o meno filtrato, qualcosa (molto) sull’oggi, su questa (post)modernità che stiamo vivendo/attraversando magari senza riconoscervisi fino in fondo.

Al vostro recensore, l’ascolto (ripetuto) del cd ha fatto venire in mente pagine nodali della canzone d’autore nostrana incamminate su sentieri convergenti, fitti di rimandi storico/geografici impastati di mito, atavismo, esot(er)ismo: il Guccini di Asia e Bisanzio, o della stessa Canzone dei dodici mesi, oppure – su un registro diverso – il Fossati della Pianta del tè (inteso come singolo brano) o di certi episodi di Discanto (inteso come album), o, ancora, il De André finale di Anime salve (sempre inteso come album). Chissà se Bonaveri ci ha pensato? Chissà se aveva in mente qualcosa del genere partorendo L’ora dell’ombra rossa?

Sta di fatto che, senza voler in alcun modo ipotizzare influenze di sorta (magari suggestioni), fin dall’iniziale Le bateleur si afferma uno spiccato senso di epicità, che molti dei brani a seguire ribadiscono, laddove altri aprono finestre diverse, sfumature diverse. E’ il caso dell’Empereur, col testo (come sempre da decriptare con cura) adagiato su un fondale più morbido e sinuoso. Le chariot, per contro, gira attorno a una polivocalità vivace quanto efficace. Più calda (e calma), a tratti quasi elegiaca, è invece L’amoureux, il cui clima abbraccia anche le strofe della Justice, che poi però si apre in refrain intensi e ribattuti, di estrema incisività, mentre il segmento finale del disco è illuminato in primo luogo dalla suggestiva Le mat e, subito dopo, da XIII (cioè la morte, alias “l’arcano senza nome”), con un arrangiamento – dei colori strumentali, soprattutto – di grande originalità e in inarrestabile crescendo.

Alla fine, viene del tutto naturale rimettere il disco da capo, per capire ciò – e non è poco – che un primo ascolto non ci ha permesso di cogliere, di assaporare fino in fondo. E poi ancora. In fin dei conti un gran bel complimento, per un disco di quelle che Bennato chiamava “canzonette”…