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Da "L'isola che non c'era":"Ribellarsi con la penna in mano"

isola"Città Invisibili", il secondo album di Germano Bonaveri

di ALBERTO BAZZURRO

Dopo le grandi promesse del disco d’esordio, “Magnifico”, che nel 2007 gli hanno guadagnato un (doveroso) invito al Premio Tenco (e a cui va aggiunto “Scivola via”, uscito nel 2004 a nome del gruppo Resto Mancha, stessa “parrocchia”), il quarantaduenne bolognese Germano Bonaveri, interprete dalla vocalità che non può lasciare indifferenti e autore di brani dai contenuti appassionati e appassionanti, impregnati di un ormai alquanto desueto impegno civile, se ne esce con questa (attesa) opera seconda, Città invisibili, come s’intuirà ispirata all’omonimo romanzo di Italo Calvino, frammenti del quale fanno qua e là capolino lungo il cd, specificatamente in Dialogo (voce narrante Alemanno) e Reverse (voce narrante, qui, Bonaveri stesso).


Entrando un po’ più nel dettaglio, dalla sensualità blasée dell’iniziale Danza (contagiosa), attraverso il già citato Dialogo, si passa a quella sorta di parabola epico/favolistico/metaforica che è – come già appunto il monologo di cui sopra – Le città invisibili. Quest’ipotetico (ma neanche troppo) fil rouge attraversa di fatto l’intero lavoro, in un rapporto testardo e ricorrente col tempo, anzi con “i” tempi: storico, meteorologico, musicale (ritmico e cromatico), ancestrale, ecc. Un rapporto assolutamente particolare, il cui ideale paradigma può esser colto in Miraggi, posposto a un Controvento in cui non si può tacere la presenza di Lucio Dalla al clarinetto.

Di Clandestino, proseguendo, va citato almeno il passaggio che recita «Ho un lavoro, sì/ ma un lavoro che non so come dire/ è la metafora di chi si vanta/ di una casa senza fondamenta». E’ con tutta probabilità questo il brano trainante dell’intero cd (che non significa necessariamente il migliore, si badi), mentre Onde è il più suadente, il più personale (nel senso di centrato sul “sé”), e Il ragno (che ci piacerebbe sentire da un Ruggeri, perché gli sembra cucito addosso) quello in cui la metafora si fa più spinta. Lettera al figlio, per parte sua, è una sorta di berceuse a un figlio ipotetico (o ipotizzato?) che può rimandare ad analoghi (e in questo caso concreti) episodi gucciniani (e come atmosfera, magari, al De André di Khorakhané).

Il secondo parlato, Reverse, è una sorta d’intercapedine fra la succitata “lettera” e Nöel, altro episodio soffice, delicato, in cui è ancora una volta l’elemento testuale quello più acre. Chiude il disco Danza (Adieu), di vago umore fossatiano (anche per la presenza dell’oboe di Mario Arcari, prezioso in ciascuno dei suoi numerosi interventi), così come del resto, a singhiozzo, altri brandelli del cd. Che sarà il caso di non lasciarsi sfuggire.