di Luigi Maieron e Giorgio Maimone
Solitario, contrabbandiere di tempo, di speranze, di resistenza.Un album che bisognerebbe tenere a mente al momento di scegliere le nomination per le Targhe Tenco. Perché Bonaveri (e lo dicevamo già anni fa) quando scrive sa cosa sta scrivendo ed ha sempre cose interessanti da dire. Ascoltiamolo senza paraorecchie. Sono parole che fanno bene al cuore. Sono musiche che fanno respirare. Sono canzoni da portare con noi.
"Canta Germano le tue parole d'amore in un mondo di angeli nascosti. Ballare, guardare, capire. Parole per dire, per chiarire. Geometrie di parole e sentimenti. Paertenze. Cercare altrove gli sbalzi per lanciarsi, per arrivare al senso del controvento ostinato. Freddo, quiete, sudore. Una foglia d'autunno, un precario equilibrio. La dimenticanza accusa la vita troppo comoda. Prendi un poco di sabbia per la tua clessidra. Tempo inutile, straniero a te stesso. Sabbia. Luci di un paese in lontananza; al di là di un mare infinito. Terra che ti resta appiccicata sulla pelle come una vecchia patria che non lascia posarsi una nuova. Confini alti, insuperabili, invisibili. Viaggio senza meta, incapacità di scegliere. Troppe prede, troppe mani alzate, distrazioni per vecchi occhiali.
Tira il tuo filo di acciaio tra il silenzio e il domani. Domani cosa sarà? In bilico sul tuo filo, stretto nei tuoi spazi, naufrago in balia delle onde. Culla tuo figlio anche se non c'è. Stringilo, amalo, anche se non c'è. Parla a te attraverso lui. Parla al figlio che custodisci tra le pieghe della tua anima e le rughe del tuo viso, al confine. Solitario, contrabbandiere di tempo, di speranze, di resistenza. Dormi. Un sussurro di preghiera. Trasporto, musica, indifferenza. Danza ubriaca, dolce dimenticanza e coscienza. E' notte, un'altra notte, la stessa coscienza. trovarsi. Un altro Natale ed un altro ed un altro ancora. Parole ... quasi d'amore". (Luigi Maieron)
Non capita tanto spesso di trovarsi la recensione già fatta (e d'autore) e riportata sul libretto del cd. In questo caso sì. Quanto riportato sopra è di penna di Luigi Maieron e descrive, racconta,. chiarisce i mondi, i punti, gli umori che si respirano nel disco. Peraltro anche Bonaveri, scegliendo di farsi introdurre da Maieron compie una scelta di campo ben precisa e indirizzata. Sì, Maieron e Bonaveri zompettano nello stesso campo della musica d'autore, quella che rivolge un'attenzione estrema alle parole e le fa accomapgnare da musiche e da un canto che invitano ulteriormente a pensare, a meditare, a ragiornarci sopra. Poco sembra lasciato al caso qua dentro, ma nello stesso tempo i sentimenti e le sensazione, le aspirazioni e le convizioni sono a fior di pelle, dentro il vibrato del canto, dentro la scelta delle frasi, persino nelle virgole e nelle pause. Perché Bonaveri (e questa è una nota di merito) scrive le canzoni mettendoci i segni di interpunzione. Vivaddio!
Bonaveri ha preso la sua lettura de "Le città invisibili" di Italo Calvino, la ha accantonata, ma su questo tema ha imbastito la spina dorsale di un album che non è un concept, ma è un'opera legata da una forte unità tematica e stilistica. Dove le città invisibili e le popolazioni invisibili di alcune città (la maggior parte, ormai) si interesecano e si scambiano destini, in uno scenario urbano dove però c'è spazio ancora per la tenerazza di un pensiero d'amore o, profondo, d'affetto. Germano Bonaveri (o Bonaveri, in arte) conferma la sua tessera di iscrizione al club della canzone d'autore in un disco intenso, coinvolgente, suadente e morbido come un rum della Martinica, di quelli agricoli, che non grattano mai la gola, che non stordiscono, che comunicano. Non è un disco che metti di sottofondo e lasci scorrere, anche l'ascolto distratto reclama subito che non siamo di fronte a un prodotto consueto.
Struggenti le "parole ... quasi d'amore" di "Danza", il pezzo che apre le danze: "Balla, ti prego, balla ancora / e non mi importa quanto può costare / ho ancora spiccioli di esistenza per poter pagare: / balla ancora. / Parla, parla ancora / e vienimi a trovare / stammi ad ascoltare / anche quando nulla ancora c'è da dire: / nei tuoi occhi grandi troverò parole / quasi d'amore". Canzone di occhi stanchi, di tempo che è passato, di ferite immaginarie e immaginate, con spazio per cercare di capire, anche se "il tempo porta via / il coraggio infantile di dimenticare / che comunque questa vita è tutto uno scivolare" ("uno" scivolare, Bonaveri! Non "un" scivolare!).
"Le città invisibili", come il titolo promette, è tutto dedicato al livbro di Calvino. Perfetta, ma necessita dei sottotitoli o di una lettura preventiva del libro o di una perfetta conoscenza. Altrimenti Despina, Bauci e Villa Meridiana rimangono dei nomi senza collocazione. Il buon vecchio uso delle note a margine avrebbe in questo caso fornito un contributo impagabile. La ballata però è ariosa e ampia. Si concede, ti prende e ti porta altrove. Effetto "Asia".
"Controvento" è interessante, antica, forse già un po' masticata musicalmente (mi ricorda qualcosa di sfuggente, ma in modo molto netto: i Sulutumana?). E' una canzone di ferite dell'anima: "Perché poi passa / il dolore passa / lasciando quiete / fuori e dentro me". E' un'altra canzone quasi d'amore: "Ora di scappare via con me / ore di parole spese al vento / Voglia di scappare via con te / Voglia di giornate spese / controvento ..."
Pregnante invece la successiva "Miraggi", che con pochi tocchi musicali ci proietta in un altrove di dune di polvere, dove una clessidara vomita cenere e le lacrime di naufrago sno cadute nella via. Canzone misterica e ipnotica: "Da dove vieni e, dimmi, dove vai? / Quale magia ti ha concepito /quale segreto sta negli occhi tuoi, / persa tra il sonno e l'infinito?". Non lascia indifferente. E, come sempre, per me, la lunga coda strumentale aggiunge fascino e piacere all'ascolto. Una canzone ha bisogno di spazio e tempo per decantare. Le code servono a questo. A fare conoscenza con la canzone e a lasciarle fare conoscenza con te, restando nel clima della canzone.
Incalzante "Clandestino" che parla della popolazione degli invisibili d'Italia e del mondo: "Ho un lavoro, sì / ma un lavoro che non so come dire, / è la metafora di chi si vanta / di una casa senza fondamenta". Canzone civile e umana, canzone politica, canzone che parla "di un Occidente che ha toccato il fondo" e lo fa col clima giusto, con quella rabbia e coerenza che tante volte sembra siano state smarrite. Convincente.
"Onde" deve naturalmente rallentare il ritmo e fornire lo spazio di meditazione necessario. E' una bellissima e pacata canzone, dove l'oboe di Mario Arcari ricama attimi di viva partecipazione. "La mia stanza non ha porte chiuse a chiave / se ne hai voglia puoi fermarti a domandare / cosa sarà di te, / del coraggio di cercare, / quello spazio in cui restare". "Il ragno" è un divvertissement caposseliano che anche in questo caso si fa notare, sia per l'appropriato cambio di atmosfera, sia per il divertimento sottostante. E poi, come al solito, quando si parla di animali, la metafora è dietro l'angolo. Suggestione "La morte della mosca", citazione Dario Fo: "L'operaio conosce 300 parole, il padrone mille, per questo lui è il padrone". "Ad ogni inverno" è una canzone durissima. "Perché ci tocca vivere, / si vuole ridere / si deve scegliere / ma non resistere / e stare bane / nostro dovere / nostra attitudine / nostro volere". Una canzone che graffia l'anima. "E ad ogni inverno si muore davvero / Quante braccia ferite: / le puoi contare sul marciapiede / o calpestare sovrappensiero".
Per contrasto "Lettera al figlio", che se non ho capito male è un figlio immaginario, è una specie di interpretazione del mondo secondo Bonaveri. "Dormi, dormi anima mia / aggrappata al conscuino stanotte non naufragherai : / guarda il mondo con gli occhi paerti e il mondo non ti deluderà / perché sai, lo stupore degli occhi è un dono che ci salverà". Una serie di massime di vita, tutte condivisibili. "E ci salverà il delirio dei semplici / quando chiedono uguaglianza tra gli uomini" ... "tra le pieghe dei secoli / si nascondono le storie degli umili / quelle genti che si chiamano popoli / quelle vite da contorni indelebili". Buffa la storia di "Reverse", che non è una canzone. E' solo un testo. Ma il buffo è che, dopo "Benjamin Button", dopo "La vita all'incontrario" di Simone Cristicchi e dopo il celebre racconto di Woody Allen che ha dato il via a questa sorta di moda. Francamente preferiremmo spunti più nuovi. "Noel" è il classico brano lento da fine album. Sennonché ... non conclude l'album. "E' in momenti come questi / quando il sogno va a dormire / e rimango silenzioso ad ascoltare / che vorrei alzarmi in volo / per strappare all'illusione / quel sussurro di preghiere appeso al cielo". Ma la fine è circolare. E' ancora la "Danza" dell'inizio (con la parentesi di Adieu) che chiude l'album. "Conosco giorni che non ritornano e altri che devono ancora arrivare / conoscono donne che promettono ciò che non possono mantenere".
Degna conclusione di un album di grande spessore. uno di quelli che bisognerebbe tenere a mente al momento di scegliere le nomination per le Targhe Tenco. Perché Bonaveri (e lo dicevamo già anni fa) quando scrive sa cosa sta scrivendo ed ha sempre cose interessanti da dire. Ascoltiamolo senza paraorecchie. Sono parole che fanno bene al cuore. Sono musiche che fanno respirare. Sono canzoni da portare con noi.