Autodafé

Etimologicamente parlando, la tregenda è cominciata:
sdilinquirsi in vaticini oscuri più che retorica è una cazzata!
Più salomonico restare quieti centellinando una tazza di the,
ripassando una litòte suadente, apotropaica all’autodafé.
Se l’ipèrbato del tuo sintagma rendesse ardua la tua difesa,
se non valesse un nolle prosequi né travestirsi da parte offesa,
i sicofanti dell’equità trutineranno l’apologia
precludendoti ogni salvezza, ma garantendoti un’agiografia.  

C’è qualcuno che sotto il clàmide tiene una storia da raccontare,
somiglia al baro che ha dimenticato il mazzo segnato con il quale  giocare:
con pervicacia ripete a sé stesso, ostentando sicumera,
che ha certi amici molto influenti e sarà fuori prima di sera.
Locupletare è stato molto facile (come adesso è sicuro il morire),
per filautìa si compì l’inosabile ed ora qualcuno deve pagare.
Esiste un nesso tropologico tra l’epilogo e l’ideazione:
sta nel progetto la differenza tra condanna e assoluzione.

Sarà bellissimo non capire
le ragioni della sentenza
barattando il nostro linguaggio
per un fisico da fantascienza,
incorniciato nella scenografia
d’un centro estetico molto quotato
dove un chirurgo semina il panico
per quel sedere un po’ rilassato.

La litanìa diventa insopportabile, non c’è latèbra in cui dimorare.
È per sindéresi che si condanna e l’apodissi si fa esiziale:
a nulla vale fingersi stolidi, il gavel batte senza ritegno,
ad ogni gnomico una testa rotola dalle pendici del monte Abiegno.
Mentre il monodico supplicare copre i lamenti dei disgraziati
l’ottuagenario tassidermista conta le teste dei giustiziati:
sembra turbato profondamente nel noverare i corpi straziati
o, forse, è soltanto dispiaciuto per tanti trofei andati sprecati.

Querula grufola una carampana, mandarinesca nel suo vestito:
le sue parole sono il frattàle di un telesma dimenticato.
Vorrei colpirla dritta nel rimmel ma ora è giunto anche il mio momento,
quasi con gioia salgo il patibolo, più tollerabile del suo lamento.
Come un anàtema prono sull’ara sta per concludersi il mio calvario.
Solo, rimpiango di aver venduto per trenta denari il vocabolario;
come un trabaccolo lascio la sponda mentre l’atlante cede di schianto:
rotola a terra  prima una lacrima, poi la mia testa le passa accanto.

E stato facile sopraffarci
come la nuvola oscura il sole:
è nel disegno del potere
derubarci delle parole.
Ora che il gesto non è possibile
e con la lingua serrata in giova
siamo vittime di noi stessi,
condannati senza una prova.
La vera colpa fu il non capire
quale fosse l’intenzione:
contrastare l’intelligenza,
scongiurare rivoluzione.