Recensione di Giuseppe Provenzano

Per BLOOGFOLK.

Ci sono delle espressioni artistiche - cinema a parte - che riescono a trascendere la loro arte di partenza per abbracciare nuovi linguaggi, e ci riescono per un motivo molto semplice: nascono talmente incisive e talmente potenti da trasformarsi in vere e proprie opere audiovisive, con un legame inscindibile fra i suoni e le immagini che da quei suoni scaturiscono. Parlo di una capacità quasi letteraria di dar corpo, nella mente dell’ascoltatore (o del lettore), a qualcosa che corpo non ha, che nasce nota su pentagramma o parola su pagina.

Chiaramente ogni ascoltatore o lettore ci vede dentro un mondo diverso, un’atmosfera diversa, quella lì è la magia dell’immaginazione di ciascuno di noi, ma insomma, il punto è che c’è comunque una certa capacità di alcune espressioni artistiche in grado di rimandare ad altri mondi, a quel “senso dell’utopia” di cui parlava Rodari, a mettere nella condizione di vedere nitidamente un racconto o una canzone, affidandone la direzione al regista più bravo di tutti: la nostra fantasia.

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