Nevicata

Diciannove novembre millenovecentonovantanove. (per cortesia... le date si scrivono in forma numerica!) Dicevo... diciannove novembre millenovecentonovantanove: mi sono svegliato presto stamattina, alle sette e poco piu'. Ho appiccicato il naso alla finestra osservando fitti fiocchi di neve precipitare nello stretto viottolo centraiolo che passa sotto casa mia, gia' quasi interamente coperto da quel silenzioso fracassarsi al suolo di cristalli candidi.

Per un attimo, una proiezione temporale mi ha scaraventato agli anni della fanciullesca gioia invernale, quando con una slitta ed un paio di scarponi si affrontavano le scoscese collinari a Bologna, nella tenuta dei Pedrazzi. Ricordo l'inverno dell' ottantadue, avevo quattordici anni. Ricordo il black out della citta', tre giorni senza luce, mia madre premurosa che mi infilava in testa quel maledetto passamontagna che io poi nascondevo nella tasca della giacca antivento blu che adoravo. Ricordo l'entusiasmo che provavo nell'aprire il portone di casa: case e strade monocolore, rinnovate in una brillantezza gelida e silenziosa...sembrava che l'universo intero si fosse inchinato al candore di quello spettacolo incredibile. Qua e la', negozianti con grosse pale cercavano di tracciare sentieri approssimativi indovinando marciapiedi imprecando contro dio che lanevelafacessevenireinmontagna. Autobus gremiti di fiati spessi e mani a spannare vetri per curiosare fuori. Ricordo la pizza calda del fornaio sotto casa mia, una meravigliosa panacea profumata che per un attimo riscaldava il cuore, preludio ad una giornata invero dominata dal gelo. *Un pezzo di pizza. Segna?* *Certo... andate fuori con le slitte?* *Si'... aspetto Paolo e andiamo su dai Pedrazzi* *ecco...tieni...e state attenti!* *Grazie, ciao* E via. Quattro morsi, vaporosa condensa del mio respirare. Quando fa' freddo, il respiro si manifesta. Esiste. A me sembrava un prodigio... ricordo che emulavo gesticolando i miei vecchi nell'atto del fumare, ricordo che mi osservavo sotto la punta del naso, gli occhi instabichiti, mentre il mio resprio prendeva consistenza. Arrivava Paolo, con la sua slitta, e ci si incamminava lungo la salita che costeggiava casa e conduceva sulle colline. Quindici minuti di scherzi e di eccitazione un po' per la scuola chiusa un po' (soprattutto) per quello che ci aspettava. Palle di neve, risate, nasi paonazzi e denti sguainati in un sorriso perenne che oggi sembrerebbe un crampo sul viso. In cima all'ultima salita, dopo una lunga curva, proprio quando di la' iniziava il declino verso un altro organo della citta', il cancello della tenuta. Una immensa conca naturale delimitata da colline, che non ho mai piu' voluto visitare negli anni, poiche' so che ora, purtroppo, quella immensita' mi sembrerebbe troppo piccola a contenermi, persino inospitale. La Signora Pedrazzi, sempre sorridente, che ogni tanto si affacciava ad osservare decine di bimbi scivolare lungo le scoscese lunghe fino a quaranta metri. La prima, quella sul lato del cancello, era perfetta a neve fresca: ripidissima, con un gran salto alla fine che ci sparava nel cielo per alcuni secondi. Oddio, non che si arrivasse chissa' dove, giusto un metro piu' su del mantello per due o tre secondi, ma a me sembrava di essere il Barone Rosso sopra lo Spirit of Saint Louis. Volare. Planare, poi schiantarsi sulla soffice bambagia gelida. Ricordo che avevo sempre un grido in bocca: ricordo che allora mi usciva naturale. Era un bel grido. Entusiasmo in onda sonora. Oggi ho imparato a soffocarlo; solo ogni tanto, in perfetta solitudine immerso nelle rive del mio fiume lo ritrovo e lo ascolto esplodere con infinita soddisfazione... ci sei ancora, Germano. Volare, dicevo...lasciare andare oltre lo slittino per godere della caduta indolore, tirare su la testa, chiedere a tutti*come sono caduto?*, subito emulato da qualcuno che si raccomandava a tutti di prestare attenzione. Cosi', senza pensare, senza la necessita' di esserci ed il bisogno di confrontarsi. Accettarsi, cadere insieme e ridere nello rialzarsi. Poi giu' di corsa, correndo nella neve come scavalcando cavalloni marini estivi fino a riprendere la slitta, proprio in fondo alla valle, nel vertice ideale di quella piramide rovesciata. Ancora su, per un nuovo morire. *Da che parte andiamo?, facciamo la ghiacciata?* *No, ancora una qui, di la' non si salta!* In cima alla salita, facce stravolte da una fatica bella, da accarezzare, sllineate con ordine che e' la democratica convivenza di pari, intenti a vivere e godere di cio' che nessuno, almeno in quegli anni, avrebbe potuto sottrarci. Al rientro, denti che battevano tra abiti intrisi di neve e acqua e sudore. Preoccupazioni per madri ansiose che ci avrebbero di li' a poco preparato un bagno caldissimo e abiti asciutti, imprecando contro il cielo. Tutto senza pensare, o meglio tutto con la mente al pomeriggio ed a quei pendii immobili lacerati da graffi di slitta. Ah... i moon-boot... qualcuno li aveva. Bellissimi, anche se goffamente li strascicavano sull'asfalto come auto con le catene su autostrade di marmo. Quando nevicava era ancora piu' bello, piu' magico: neve sopra e sotto, ovunque. E noi immersi in quel mare bianco a guardarci entusiasti e spensierati. Erano gli anni di Happy Days, gli anni dell'Eskimo di Guccini , gli anni in cui di nascosto leggevo *IL MALE* e sul portabiancheria le riviste pornografiche che mio fratello maggiore maldestramente nascondeva. Gli anni in cui non capivo nulla, o forse capivo troppo, rigettandolo e preferendo l'ovattato bianco che attutiva persino i suoni. Era come se in quel novembre avanzato Natale avesse deciso di arrivare prima, mancava solo un albero di plastica illuminato a giorno per vivere la magia del 25 dicembre. Le sere in quei tre giorni di black out erano splendide: candele ovunque... quelle della ferramenta del papa' di Paolo, quelle che mio fratello andava a prelevare in chiesa, compiacendosi di un gesto che a lui doveva sembrare estremamente rivoluzionario, quando a me in quegli anni sembrava straordinario il non accenderle. Tutti raccolti, mio padre mia madre mia sorella e mio fratello, intorno alle candele ammassate piangenti cera sulla tavola della cucina, con me bambino che giocavo a soldatini sdraiato sul pavimento e raccontavo le imprese della giornata. Ero strafelice. Quei momenti non tornarono mai piu'. Grazie alla neve, agli spazzaneve che non circolarono per due giorni, alla luce sparita dalla citta', alle minestre calde che invogliavano a restare, al mercante in fiera che riusciva a raccogliere quattro persone intorno ad un tavolo e ad un bimbo cui giocare sarebbe piaciuto per tutti i giorni di li' a venire. Com'era bello infilarsi sotto le coperte di flanella con due panni che tiravo su fino al mento, la testa sprofondata nel dolce abbraccio del cuscino, e dire buonanotte a tutti perche' tutti erano a casa, rassegnati alcuni a dovere andare a letto anzitempo, perche' tanto non c'era null'altro da fare! Non potevo chiedere di piu'. Null'altro da fare... ma cos'altro si poteva desiderare? Anche la notte sembrava luminosa grazie a tutto quel bianco. La luna io la vedevo dalla finestra della mia camera, andavo a letto scostando la tenda ed aggrappandola alla maniglia dell'infisso, per vederla prima di addormentarmi. In quel cielo blu ghiacciato appariva netta, quasi bianca. Stalattiti scendevano come artigli dal tetto della casa di fronte, brillanti.Non lacrimavano mai...iniziarono il loro pianto giorni dopo, fino ad esaurirsi in una pozzanghera che presto sarebbe svaporata. Per questo, forse, avevo paura di piangere. Per questo poi ho disimparato. Sono stato alla finestra piu' di venti minuti, stamattina. Avevo gli stessi occhi di allora, sognanti ed affascinati dall'inconsueto spettacolo silenzioso. Oggi non posso uscire a calpestare quella soffice fantasia, riesco pero' a sentirla ancora scricchiolare nel mio intimo come allora, sotto ai miei passi ansiosi di una scoscesa. Ora non gioco quasi piu', la mia slitta ha un motore, un volante,ma teme le discese ghiacciate, e soprattutto non posso essere io a portare lei. Paolo sara' in qualche angolo di Bologna ad inseguire i suoi sogni, io resto in qualche altro sottoscala a ricordare, ogni tanto penso al tremolio magico di un grappolo di candele incollate alle loro lacrime.