... a dodici anni

A dodici anni mi regalarono una chitarra.Nerissima, come quella di Bennato e lucida come gli occhi di uno scoiattolo. Toccavo quelle corde con i polpastrelli senza callo ed ascoltavo l'espansione vibrante del La, la mia mia preferita tra quelle funi d'acciaio.

Ero fermamente deciso ad imparare a suonarla: mi arrampicavo su quelle curve con una passione sensuale mentre il mio avambraccio destro faticava nell'oscillazione necessaria a produrre suono, con la circolazione sanguigna quasi bloccata dalla pressione sull'incavo, mio e suo. Do, la minore, re minore, sol settima: e cantavo di una gatta dalla macchia nera, di Laura che ora ci crede, adesso si'. Solo, nel salotto di casa mia, consumavo le dita nella passione per quel mistero quasi armonico con il quale vibravo, diapason imperfetto che in quell'istante finalmente si accordava. Progredivo. Mi feci regalare un'armonica, ed un buffo telaio che serviva a farmela trovare sempre li', davanti alle labbra, pronta ad essere morsicata in uno dei pochi refrain che un repertorio povero come un albero autunnale metteva a disposizione. Ma la primavera, si sa, giunge improvvisa e pochi accordi ancora (La maggiore, re,mi... Re maggiore, sol, la) avrebbero visto schiudersi al sole dell'entusiasmo le possibilita'. *E' stata tua la colpa, e allora adesso che vuoiiiii*... scimmiottando il mito, godevo dell'attenzione annoiata del gatto seduto di fronte a me che ogni tanto miagolando e strusciandosi alla poltrona mendicava cibo. Quell'esercizio di coordinazione mentale a poco a poco mi concedeva la distrazione, lasciandomi abbandonare alla musica. Ero musica. Canzoni, accordi, spartiti... un mondo teorico e teorizzabile (di li' a poco avrei iniziato a scrivere le mie canzoni) si srotolava ai miei piedi, io non facevo altro che seguirlo esatasiato in un innamoramento innocente e sincero. Quando, dopo estenuanti dolori muscolo-scheletrici stoicamente sopportati perche', si sa, le grandi imprese sono per gli uomini grandi, riuscii a produrre i primi barre' decenti che non fossero una laconica stoppatura della pennata, riuscii finalmente a fare entrare Guccini tra le mura della mia cameretta. La locomotiva. Cinque minuti di contorsioni, di rifacimenti, rimandando lo schianto contro al treno di quel pazzo cui ogni giorno, a mio modo, salvavo la vita. O prolungavo l'agonia. *Andiamo ai giardini, oggi pomeriggio!! vieni anche tu e porti la chitarra?* ... Avevo gia' quindici anni, annuivo con mille entusiasmi e mi emozionavo, sinceramente. Mi caricavo di spartiti, di sogni, di canzoni mandate a memoria ipotizzando scalette mentali d'esecuzione e uscivo di casa con lo stomaco contratto per affrontare a passo veloce i tre chilometri che mi dividevano dalla felicita'. Naturalmente ero il primo ad arrivare e timidissimo, solo, in quel prato che sembrava una immensita' oceanica di palloni, passeggini, mamme e ragazzotti a torso nudo restavo fintamente distratto a leggere uno spartito che gia' conoscevo a memoria. Snocciolati come grani di rosario arrivavano tutti, e come sempre una sfera bianconera in finto cuoio rotolava tra noi proprio mentre dal fodero sguainavo la mia sciabola spuntata. Accordatura ad orecchio, fintamente assorto nel solitario accovacciarsi intorno a me di nessuno, immaginandomi sguardi interessati che percepivo ingannandomi seduto su quel tappeto erboso e distesa bianca e compatta di testi, spartiti, sogni. Restava lei, con occhi enormi e sognanti che forse comprendevano ben oltre la sua eta' lo sgomento e la disperazione di un sogno solo mio, fatto di ambiziosi segreti e di sincero amore. Non finivo nessuna canzone. La iniziavo, poi temendo la noia altrui, cambiavo radicalmente genere, autore, ritmica. Volevo piacerle. Lei era gia' voltata ad inseguire con gli occhi il demonio sferico, cercando frettolosamente tra le possibilita' il modo per aggregarsi all'allegria del gioco. La sentivo aggrappata allo sguardo di una amica che l'avrebbe di li' a poco chiamata ad aggregarsi, a disgregarmi. Allora suonavo solo, cantavo *incontro* sottovoce con il capo chino sulla cassa armonica, mentre dentro bruciavo e pensavo. Decisi di tradire me stesso. Mi arresi all'eta' rinnegando il sentimento per tentare disperatamente di assaggiare una fetta di vita. Sfrontato, ammiccante, sempre al massimo della forma in un vuoto esibizionismo da branco, scoprii il modo di esserci, di stare tra loro, con loro...ballavo ondeggiando impacciato tra luci stroboscopiche di improbabili feste di compleanno stando ben attento a scegliere solo la compagnia di chi come me era gradevole, simpatico, imbecille. A casa suonavo sempre, disperato. Guccini, Springsteen... canzoni mie. Adesso, ora che altri anni sono scivolati come un lenzuolo su questa anima supina, disillusa dalle apparenze da tempo immemore, suono ancora. Suono solo, sempre a capo chino ma con fatica giacche' sovrasto quelle curve lignee con la pesantezza del vissuto, canzoni sempre uguali che mi rigettano come una catapulta verso quei prato che sento ancora sotto di me, intorno a me, in una odissea selvaggia di mamme distratte e palloni gridati. Chiudo sempre la parentesi di memoria con *Van Loon*, che lentamente parte, o meglio resta, guardando allontanarsi serenamente la balorda comitiva carnevalesca di una vita che, sinceramente, mi manca un po'.