Vi voglio raccontare...

Ho una storia da raccontare. Una storia di quando ero bambino, di quando gli alberi crescevano ai lati dello stradone e bevevo dalla bottiglia, sempre quella, che ogni mattina per magia si riempiva nuovamente come se avesse in se' il segreto per trasformare la rugiada in latte.

C'erano poche automobili ed erano un lusso dei signori, quelli di citta', che annoiati venivano fin quassu' a respirare aria buona nelle lente estati accecate dal sole. Sembrava un gioco... i bambini ricchi sorridendo tra loro guardavano noi montanari coperti di stracci, mentre noi ci burlavamo del loro vestire scomodo con quelle brache di fustagno e quelle giacche e quelle camice che non potevano muoversi, che se salivano su un abete per fare a chi arrivava piu' in alto sbuffavano per il gran caldo e la fatica. Non potevano guadare un fiume, non potevano tirarsi palle di fango perche' senno' le madri.... Insomma, non potevano, e ne soffrivano cercando di non darlo a vedere. Certo che anche loro si toglievano una bella soddisfazione quando tronfi d'orgoglio, seduti sul sedile posteriore della decappotabile di papa', attraversavano il paese seguiti dai nostri occhi che tradivano gelosia in uno sguardo falsamente indifferente. Ricordo che in quei momenti ripetevo a me stesso che mio padre era meglio del loro. Soffrivo dentro. In quei due mesi mandati da Dio, nei quali le donne del paese scendevano nella piazzetta per guardare i vestiti di moda ed i cappellini con tanti fiori stupidamente finti che le signore di citta' mettevano apposta in una gara di ammiccamenti , io passavo le giornate all'osteria per ascoltare i commenti dei vecchi sulle ragazze piu' belle, che come comete solcavano il piccolo cosmo polveroso quotidiano . Tutta quell'eccitazione, quello stare come al cinema ad osservar bellezze durava, ahime', solo sessanta, settanta giorni... i primi freschi delle sere quasi autunnali significavano il ritorno al quotidiano, al lavoro dei boschi ed alla cura del bestiame. Qualche tressette alla sera al bar, ma solo i grandi che' i bambini andavano a letto presto per andare a scuola. Ricordo con nostalgia le mattine invernali fatte di sveglie alle cinque e di galaverne che tagliavano le ginocchia, l'odore dei libri e la gioia del ritorno a casa, dove un fuoco era la' ad aspettarmi per dirmi che il mondo non si era scordato di noi. Era un altro universo, l'inverno di allora. Inverno faceva paura, Inverno era quello strano generale che fermo' un intero battaglione di francesi, Inverno fu l'unico in grado di uccidere Bimbone il Fabbro quella sera che usci' per cacciare una volpe che scannava le sue galline e, sorpreso da una tormenta, perse la strada del ritorno. Non l'hanno piu' trovato. Dissero che fu rapito da Inverno, e ci terrorizzarono al punto che per quell'anno, appena feceva buio, si tornava di corsa a casa lasciando al mondo i nostri giochi fatti di palle di neve e pupazzi, di slittine d'asse e nascondini. Mi mancano le serate in casa quando mio padre benediceva il pane con tutti noi a testa bassa pronti ad annuire sottindendendo un grazie verso un onnipotente che neppure potevamo concepire. Neppure m'interessava. Il mio universo era tutto la', tra quelle alte cime che sembravano isolarci e proteggerci da chissa' cosa; quello di cui avevo bisogno era tutto racchiuso in quello scrigno di dolomia dal quale neppure gli stambecchi, e loro si' che avrebbero potuto fuggirne, cercavano di uscire. L'acqua ce la regalavano il cielo ed i ghiacciai, il bestiame ci aiutava a sopravvivere ed il fuoco ce lo cedeva il bosco con la sua legna, il resto era frutto dell'ingegno degli uomini come mio padre. Anche se lui la macchina non ce l'aveva. Mattine assolate di primavera, quando il torrente ancora gonfio delle nevi alte si velava di colori grigi : tutto significava ai miei occhi la perfezione assoluta. Che bisogno avevo di Dio? Lo cerco ora. Forse per paura, forse perche' sento vacillare tante certezze che questa citta' non riesce a darmi con le sue cime fatte di parallelepipedi armati che non servono neppure a trattenere la neve. Forse lo cerco ora perche' quell'universo ha ceduto il passo ad un nuovo mondo di frenetiche luminescenze al neon che non mi lasciano piu' vedere, all'imbrunire, le mie stelle.Lo cerco perche' non lo vedo e non lo sento piu', assordato da telegiornali e clacson del dopocena. In questi anni che ho rubato alla storia, non facendo capitare nulla, ho visto cambiare anche il silenzio. Io un tempo lo ascoltavo: era fatto di cinguettio d'uccelli, di fronde che stormivano sferzate dal vento e che il gelo faceva schiantare con un rumore secco e doloroso, era cullato dallo scorrere del torrente ed accarezzato dalle ali del falco. Adesso, ed anche stasera tra queste mura, vive un silenzio artificiale che non fa' rumore, talmente vuoto da rimbombarti dentro fino a fare male. Stento persino ad addormentarmi, alle volte mi sveglio e tossisco di una tosse secca e simulata solo per potere ancora ascoltare la mia voce, per non sentirmi davvero solo. E' la paura. Vive con me, esce con me ogni mattina da questa stanza quando scendo giu' al piano basso dove servono la colazione: caffe' d'orzo ed una focaccia sintetica che ha il sapore della plastica che la contiene. Vivo cosi', ora. Non sento piu' l'odore dei miei fiori, il fresco mattutino che e' il bacio della luna quando cede il passo all'astro del giorno, non ricordo quasi il ferire del sole quando all'alba manda il primo bagliore che come una saetta trapassa le foschie basse e rischiara i boschi. Questo ospizio si e' scordato di me. Non capisco se io sono fatto per lui o viceversa, mi rendo solo conto che invecchiamo ancora insieme, se mai fosse stato possibile, in attesa che tutto passi. Sto imparando una cosa, pero'... la montagna non e' lassu', ad anni luce da me: la montagna sono io, quando permetto agli anni di posarsi su queste spalle stanche e curve; io sono il torrente, che scivola al fiume per donarsi pencolando tra enormi massi franati sul suo antico letto; sono io il ghiacciaio, che cede la sua esperienza al sole della gioventu' per alimentare altre sorgenti in un viavai continuo di un cosmico equilibrio... Io sono mio padre, quel padre che non aveva l'automobile ma benediceva il pane che un onnipotente mai visto dispensava su questo sferico incidente creativo. Io sono nel tutto, e voi con me... una nostra risata rallegra l'infinito, un nostro dolore tinge di nero qualche remoto angolino di cielo che nessuno forse guardera' mai. C'era una storia, che vi volevo raccontare, ma tant'e'... questa mia vecchiaia e' parte di una storia che non lascera' segno sui nostri libri, cosi' attenti ad insignificanti vicende di rumorosita' e desideri di tutti i giorni. Ve la raccontero' domani, se ci saro' ancora, diversamente, andate tra quelle mie montagne, sedetevi ed ascoltate... incontrerete il silenzio di quelle schegge di dolomite che sapranno tenervi compagnia, e per voi sara' anche esperienza nuova.