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Dell'alchimia

Il crogiuolo si e' raffreddato, storte ed alambicchi giacciono esausti dopo una notte di illuminazioni, delusioni, illusioni palpitanti scandite dalla vana ricerca dei colori dell'Opus. Niente Albedo, niente Nigredo. Niente di niente. Febo e' deluso, stanco ma tenace. Ripose i manoscritti gelosamente custoditi nella madia, avvolti in una iuta anonima ben mimetizzati tra sacchi di farina, arnesi, cordame. Una perfetta ed assoluta confusione.

Getto' un ultimo sguardo all'Explication de la Table d'Emeraude de Hermes Trismegiste par Hourtulain , quell'Hortolanus che lo illumino', secoli prima , sull'arcano significato di tante parole apparentemente insensate. Correva l'anno 1599, alle soglie di un nuovo secolo pieno di incertezze e paure, tra streghe incenerite e Fenici cui un vento di scetticismo aveva soffiato via le ceneri, cercando di uccidere cio' che per Natura ha vita eterna. Ed in quella notte autunnale Febo aveva ancora una volta cercato di ricoagulare quelle ceneri per dare una casa al mitico uccello, per riscoprire la forza forte di ogni forza, come insegno' il Trismegisto. Aveva ancora una volta fallito. Dove, dove aveva sbagliato? Forse troppo sale mercuriale ? Forse lo sterco usato per la fermentazione era troppo umido? Tutto da rifare. Ripenso' a tutti i filosofi prima di lui: a quel Raimondo Lullo che trasmuto', a quel Flamel che grazie al Libro dell'Ebreo Abraham porto' a compimento l'Opus, all'anonimo autore del Mutus Liber che certamente sapeva, a tutti. Ebbe un attimo di sconforto. Dove aveva sbagliato? Aveva piu' volte separato l'umido dal secco, calmierato il fuoco e purificata la parte liquida, sublimando gli elementi sicuramente oramai puri, grazie a quel Solve et Coagula che depura i metalli separandone la parte fissa e pesante da quella volatile e leggera. Eppure... Riposo' addormentandosi su se' stesso un paio d'ore, mentre le tormentose domande poco a poco si acquietavano come il rumore di un carro in festa si spegne con la lontananza, discretamente e senza clamori. Ebbe un sonno profondo, talmente buio e vuoto da sembrare violento. Al risveglio la notte non si era ancora spenta, una luna tersa dalle nubi rischiarava appena le meravigliose foreste di quell'appennino toscano cosi' misterioso da mettere paura. Usci' dal suo capanno per cercare. Si diresse a memoria verso il castagneto con una sacca vuota in cintola ed un bastone nodoso nella mano destra, il largo cappello a falde penzolante sulla schiena e la pelliccia lanosa a confortarlo dai primi grandi freddi di stagione. Volpi curiose lo guardarono allontanarsi ingoiato dall'oscurita', solitario mendicante di una Pietra Filosofale leggendaria che gli sfuggiva, che con lui giocava lasciandosi intravedere per brevi istanti e poi scomparire, sorridente. Cammino' a lungo, inerpicandosi tra le nebbiose cime delle sue montagne, in cerca di qualcosa che neppure lui sapeva, di un qualcosa che avrebbe riconosciuto qualora gli si fosse parato innanzi. Quando il sole si levo' in cielo, intravide un Febo pensoso accovacciato sul sasso piu' alto del torrente, le mani nelle mani ed il cuore chissa' dove. Bevve avidamente, prono come un buffo orso sulle acque spumeggianti , prima di riprendere il viaggio: riempi' la borraccia e colse alcune bacche per sedare la fame; altre piu' misteriose le ripose nella sacca insieme ad un ciottolo dorato del rio che avrebbe fuso in altro tempo. Con un giorno di cammino sarebbe arrivato al paese passando per il sentiero che conduce al mulino vecchio, dove si sarebbe fermato a salutare Bortolo condividendo con lui un bicchiere di buon vino. Aveva oramai scavalcato l'ultima montagna, disceso l'ultima erta ed il sentiero erboso rendeva il passo soffice quando incontro' un uomo, cui non sapeva imputare eta', vestito in maniera quasi comica. Sembrava un moro appena scampato ad una crociata, con un buffo copricapo senza falde che non lo avrebbe riparato ne' dal sole caldo dell'estate, ne' dalle noiose pioggie autunnali. Indossava dei pantaloni ariosi decisamente inadatti a quel mondo dove il rovo ti cattura, il guado ti appesantisce e le persone ti sfuggono se non sei come loro. Apposta Febo viveva lassu', tra le montagne. Viveva insieme al Tasso ed al Capriolo, cosi' diversi tra loro ma cosi' tolleranti. Il viso dello straniero era gioviale, brillava di una saggia serenita' come solo chi nulla teme e nulla desidera puo' avere; gli occhi vispi separati da una naso aquilino ornato da baffi crespi e neri, cosi' neri su quel volto d'ebano da risaltare come una stella polare nel cielo. Non aveva sacca, ne' borraccia, ne' bastone: sicuramente inesperto di quei luoghi, sembrava la nota stonata di una sinfonia celeste, immerso nel verde paradiso montuoso venuto chissa' da dove. Lo saluto' con un cenno della mano, trascinando lievemente il bastone verso il cielo e mostrando il pallore dei forti denti nella fessura di un sorriso appena azzardato. Lo straniero ricambio' con un discreto inchino vezzoso, sembrava un principe senza regno e senza ori, uno allevato nell'agiatezza e cresciuto da un aio saggio. Camminarono l'uno incontro all'altro, guardandosi reciprocamente negli occhi. Fu Febo a parlare per primo: "Buona giornata a Voi, straniero." "Contraccambio, Signore." Febo si sorprese di due cose: la prima fu il fatto di avere parlato, cosa che non faceva da almeno tre mesi, abituato alla solitudine ed al silenzio della lettura concitata; la seconda della perfetta padronanza della lingua da parte di Ismaele, nome col quale l'uomo si presento'. "Non sembrate natio di questi luoghi", azzardo'. "Sono Arabo, anzi lo ero. Da alcuni anni sono cittadino del mondo." "Come il Cosmopolita", disse un ispirato Febo. "Il dialogo dell'Alchimista e Mercurio e' trattato magistrale, illuminante..." , penso' ad alta voce Ismaele. Gli occhi stupefatti di Febo fissarono a lungo l'uomo, che dopo quelle parole gli sembro' rischiarato da un'aurea divina, cosi' come atterriti si viene abbagliati da un lampo improvviso di notte estiva. "Conoscete le Opere del Cosmopolita?" "Caro amico, sono cresciuto in Arabia studiando e ammirando le Opere sublimi di ispirati filosofi, poiche' mio padre fu un grande alchimista e volle trasmettere alla progenie le esperienze e gli insegnamenti ricevuti in dono da Allah.", disse abbassando lo sguardo in gesto di profondo rispetto. Parlarono a lungo, condividendo il viaggio nella direzione da cui Febo proveniva, ormai dimentico del perche' del suo pellegrinaggio, assetato solo di conoscere e sapere del misterioso nuovo Amico. Ascolto' racconti di paesi ammantati di mistero, di aridi deserti di sale battuti da venti caldi, incredibili spiagge che ogni giorno si spostano cullati da Alisei mitici, di uomini ammantati di bianco depositari dei segreti del vetro e della matematica, di stelle maestre e mondi dimenticati. Animali esotici e uomini saggi, mari sterminati come deserti, con dune schiumose contro scogli affilati. Lo condusse alla sua capanna, invitandolo a restare la notte per riposare e rifocillarsi, avrebbe potuto riprendere il viaggio l'indomani. Ismaele accetto', poiche' negli ultimi tre giorni aveva camminato a lungo, dormendo dove capitava, in stalle od ovili messi a disposizione da impietositi montanari. Febo accese il fuoco e pose li' accanto della carne essiccata ed un pane, spillo' del vino e porse un boccale all'ospite, dopodiche' sedettero ipnotizzati dal crepitio della fiamma sul ceppo. Ismaele si guardava intorno, soffermando lo sguardo sugli arnesi abbandonati ovunque: le pinze da crogiuolo, le ampolle, le cassette di legno, le vaschette di decantazione... "Cercate la Pietra?" "Si', " rispose Febo, "e' il motivo della mia vita... non l'ho ancora trovata ma sono certo che un giorno vorra' illuminarmi, lasciandosi svelare. Conosco a memoria i saggi dettami di Bernardo Trevisano e Basilio Valentino, il Mutus Liber dell'anonimo e di tutti gli altri filosofi che prima di noi hanno calcato questa terra... mi aiuteranno, vedrete." "Il Mutus Liber non e' stato scritto da un anonimo, ma dal fiero Altus..." , replico' Ismaele. Febo fisso' l'ardente secca fiamma. Quell'uomo era quel qualcosa che stava cercando. La coincidenza, in cui oramai non credeva piu', si rivelava come destino, ammantandosi del velo di verita' e premio agli sforzi suoi. Sentiva di dover condividere, di dover svelare quei suoi segreti di insonni veglie al crogiuolo in attesa del volgere al bianco del Lapis, quel suo mescolare occulto di orina, sangue, capelli, argento e sale, quel pestare nel mortaio pietre mai viste mescolandole a salnitro e letame, mostrare ad Ismaele quei libri tenuti nascosti da sempre, discutere e ragionare di cio' che aveva sperimentato, di cio' che l'arabo conosceva ed aveva saputo o visto, del mondo dell'universo della vita e del nulla. Nel raccontarsi, Febo si rese conto della pochezza del suo operato: quell'uomo lo ascoltava attento con gli occhi gonfi di comprensione, ma mai stupiti. Macche' segreti... Si sentiva stupido ed ingenuo come un bambino che svela alla madre di avere scoperto in che modo la cicogna tenga tra il becco il fardello candido che contiene il neonato. Occhi mai stupiti. Stava toccando con mano la sua presunzione, il suo vano sforzo di scalare il cielo conficcando nel nulla un piccone che non faceva mai presa, mai presa... E mentre parlava e pensava, in disarmonia interiore, gli occhi si gonfiarono di umide lacrime, trasfigurando la sagoma dell'uomo che sedeva quieto di fronte a lui. I bagliori della fiamma venivano amplificati allo sguardo di Febo come se una lente magica di caleidoscopio avesse preso coscienza di se', improvvisamente si alzo' e scaglio' lontano il boccale che si fracasso' sulla cassapanca, macchiandola con il rosso del vino. Ismaele taceva, intenerito. Fuori le volpi protesero le orecchie impaurite dal grido di un uomo disperato, un suono nuovo e stridulo che mai avevano udito tra quelle montagne, mai udito da quella capanna. Come in preda ad un demone, Febo strappo' dalla iuta i suoi testi e li diede in pasto ad un'avida fiamma che li consumo' in un attimo, con una luminescenza biancastra che avrebbe voluto vedere nelle notti al crogiuolo mentre Ismaele, immobile, fissava i riverberi e le ceneri danzare quel sabbah infernale nel camino. Febo si sedette stremato solo quando in quel rogo rimasero soltanto il ceppo oramai carbonizzato ed il cibo lordato dalle pagine distrutte. Pianse a lungo, silenziosamente e senza singhiozzare, concentrandosi sulla propria dignita' montanara fatta di durezza e forza. Ismaele gli uso' la gentilezza di non guardarlo, rimase semplicemente li', accarezzato dal tepore amico della fiamma, imparziale carnefice di legnami, libri e vite umane. Non si mosse fino al momento in cui si rese conto che nessuna lacrima scendeva piu' ad impastarsi con il polveroso pavimento del capanno, fino al momento in cui fu certo che la Fenice fosse risorta dalle ceneri sue, mondata e ritrovata. Fisso' allora Febo, con fermezza e tranquillita'. "Ecco, Amico mio. Hai tagliato la testa nera del corvo , scoperto le dodici chiavi di frate Basilio Valentino. Il letame dei filosofi e' la perseveranza e la pazienza, il crogiuolo ora e' caldo al punto giusto. Solvi e coagula , adesso. Riponi gli arnesi, che' il Mercurio e l'Argento sono sublimati. Il mio lavoro qui e' finito, voglio riposare fino all'alba perche' ripartiro' con gioia domattina diretto al Nord. Altri alchimisti solitari cercano Pietre lontane con la dedizione nel cuore, senza trovare e disperatamente. Ricorda sempre, amico mio: libro apre libro, e Natura ha mille pagine da mostrarti se tu chiuderai gli occhi guardandoti dentro per poterle leggere." Cosi' dicendo, si corico' accanto ad un fuoco ormai spento addormentandosi in un lampo. Febo resto' li accanto, le braccia abbandonate lungo il corpo e gli occhi ancora gonfi. La Pietra Angolare spunto' timidamente dall' angolo segreto del suo cuore, sorridendo dolcemente. L'accarezzo' con l'animo, mentre un torpore rilassato lo ammantava nella notte autunnale di quelle montagne toscane.