Deciso, cerchero' di scrivere una poesia. Bella, se posso: di quelle profonde, quelle con rime baciate linguainbocca, perfettamente arrotolate alternandole con misurate parole, cesellate e colorate a tinte morbide in un amplesso sudato e tiepido dove l'ansimare diventa canzone. Voglio darle un titolo assoluto, cosi' bello da bastare quasi a se' stesso, cosi' fortemente coniato sull'acciaio del pensiero da diventare amovibile dalla coscienza del cosmo, un titolo che sia introduzione e finale, alpha e omega.
Mentre rifletto tamburello con la matita sul foglio, alle volte traccio sinuose curve che poi arzigogolando salgono e scendono, si arricchiscono di lazzi frivoli alla stessa velocita' con la quale il mio intimo si svuota di razionalita' fino a vagare leggero nell'effimero del simbolismo pronto a cogliere l'ispirazione. Potrei scrivere versi all'amore, ma l'amore e' schivo: e' una prostituta che si concede solo a chi e' disposto a pagare il telesma del mondo, solo a chi e' disposto a barattare lacrime col sudore. Non e' roba da poetare in serate cosi', comodamente seduti testa nelle mani con un primitivo che ondeggia nel calice cullato dalle oscillazioni del tavolo mentre una radio sfuma "Sailing", insieme alla percezione del se'. Ho poetato amore solo cullato tra le sue braccia, nella sofferenza infinita ultima dell'orgasmo, la contrazione assoluta dell'esistere che esplode come supernova... ma non esistono parole. Scrivero' di me, di noi. Il macrocosmo mondo nel microcosmo uomo, e viceversa. L'alternanza emozionale della natura, l'andirivieni estatico delle realta' quotidiane, l'infinito che si mette a chiacchierare con l'eternita'. Ma ancora non ho il titolo. Non ho ancora "neppure il titolo". La chiamero' "Stella". Si', stella mi piace, perche' palese splendore ma assoluta discrezione, umilta' femminea a brillare notturna senza la presunzione abbagliante del maschile solare. La statica quiete paziente sempiterna delle terse notti invernali, la certezza che un tempo esiste in perenne espansione senza verso e intensita', goffamente misurato da noi pulviscolari esserini illusi di saperne leggere lo scorrere. Immagino una clessidra' conficcata sul palo della meridiana sanguinare sabbia sulla sabbia di un deserto che di lei non si cura, che' nulla ha da aggiungere, ne' da sottrarrre: solo il dolore dell'irreversibile. Cosi' mi piace immaginare il tempo, un'idea che ipotizza di se'. Bene, sara' "stella". Scrivo questo titolo diligentemente su un foglio nuovo, l'altro e' accatastato insieme ad altre palle di neve di questo inverno concettuale accanto ad un cestino che proprio non so violare. Lo scrivo in corsivo, leggermente inclinato a destra per dare un senso di eleganza per convincermi, o piuttosto illudermi, di avere le idee chiare: non so che succedera', so che fluira'. Come ogni sera, mi ritrovo come un Crusoe a scrutare l'orizzonte sull'isola lignea del mio tavolo aspettando l'equipaggio della nave Intuizione, naufrago del quotidiano prigioniero di un gioco crudele: milioni di piccolissime isole tutte affiancate in questo finto oceano, cosi' vicine che i rami dei loro alberi giocano ad accarezzarsi tra loro mentre distratti tagliamo canne per difenderci dal cannibale, dal diverso. Un deserto di trappole. E questo cielo piatto, una teoria infinita che da quaggiu' appare misero tappeto bucherellato, attraverso i cui fori nelle notti serene possiamo intravedere l'immensita' che a noi si cela, la veraluce, la teoria di dio. Ecco come comincera' la mia poesia, scrivero' di questo panno bucato... "Il vetro nero e' alto su me, maculato d'argento a raccontar di noi attraverso gli occhi delle lontananze." Puo' andare. Anche perche' dio, se c'e' , e' davvero lontano. Quantomeno, disattento. Certamente assimilare le stelle a macchie d'argento e' banale, riduttivo, ma e' questo che in realta' cerco: la semplicita' dell'inimmaginabile, del lontanissimo: la concretezza dell'ipotesi, la vacuita' della tesi, l'insostenibilita' della dimostrazione. La stoltezza della scienza, millenni di scalate impavide per scoprire di essersi arrampicati, ahinoi, a testa in giu'. Arriveremo da qualche non parte per crederla la vetta del mondo, per scoprire che a quel punto, per capire davvero, dovremo semplicemente lasciarci cadere verso il mito, con gli occhi a fessura perche' i buchi del cielo ci abbaglieranno persino nella notte piu' buia. Se non rimbalzeremo contro l'immensita', infrangeremo la barriera e scopriremo la luce. Questa contemporaneita' dell'assoluto e' disarmante, sento l'infinito talmente innumerabile da inebriarmi la percezione, scopro che il minuto del nostro tempo e' grande quanto tutta la nostra storia. Questo scrivero', scrivero' di questo fiume di lava che non ha sorgente e foce, ne pendenza: scorre nasce e muore nel lampo di un attimo imparandosi per esperienza, dimentico di se' per l'inesistenza della memoria. Chi non ha passato non ha presente, ne' futuro. Siamo una contemporaneita' inconsistente, la sintesi di una eco sorda che rimbalza, un'onda che non esiste. Vorrei riuscire a raccontare delle nostre ambizioni cieche, del nostro cercar di lenire il dolore della ferita secca dell'esistere cullando illusioni di possibilita' dimenticandoci di galleggiare tra queste acque. Siamo foglie in un cielo d'autunno. "Trapassati remoti, che non conoscono un poi, navigano le distanze di eoni liquidi a scorrere tra le rapide dell'infinito. La mia eco e' lontana: c'e' una torre da erigere che nascosi con un dito indicandola a questa specie scarsamente umana, per salvar l'occhio assonnato distrattamente attento a non calpestar specchi." Dovrei rileggermi, perche' l'inquietudine della stanchezza mi rende opaco e sento che ho perso la via come un bambino al supermercato che ha lasciato la mano sicura della madre per riguardare un giocattolo... mi ritrovero' piangente tra occhi che non sapranno consolarmi. Grazie al cielo non ho paura del buio, ne' della solitudine. Ho imparato a lasciarmi condurre dai suoni, ad annusare l'aria per trovare certezza di me, del vento che viene dal mare, della pioggia che arrivera' da ponente. Le mie mani sanno trovare, i miei passi cauti hanno scoperto il gioco dell'equilibrio grazie alla cautela della lentezza cosciente. Quando sono solo, mi guardo. Sono fuori da questo corpo leggero e mi piace scoprirmi goffo bipede intento a palpare la notte regina. Quando ero bambino, scoprii che la solitudine non era un vuoto che sedeva accanto a me: era un immensita' densa di spazio che potevo invadere con i miei giochi: ora ero pirata coraggioso, ora assassino di draghi, ora prode paladino partito per la crociata. Ero tutto, e tutto giocava con me. Imparai ad essere amico di tutto ed ancora oggi ho la certezza biologica di partecipare con il semplice gesto del respirare al gioco infinito delle cose che semplicemente esistono, sono una parte infinitesima del tutto che ne giustifica l'esistenza. L'eternita' non ha misura, ma ne ho la dimensione: so che esisteranno tanti giorni pari quanti sono quelli dispari, con la massima precisione. E' una certezza di una portata sovrumana, e' l'infinito distrattamente riposto nella tasca interna della giacca. Mi conosco irripetibile, eppure infimo. Non esistera' mai piu' un altro me, per questo sono cosmico eppure cosi' inutile da svanire tra le ceneri del cosmo. Mi piace esistere perche', in fondo, non ha senso. "Di questo passato, che aspetto affranto su questo mondo a spicchi, serbero' memoria. Quando arrivo' il futuro, porsi la mano all'idea per trovar traccia di me." Mi rileggero', per ridere di me e riprendermi dalla follia, per darmi una grattatina tra i capelli e sussurrarmi con la voce leggera del pensiero: "adesso e' tardi, vai a letto: domani hai un sacco di cose da fare". Stella. Il vetro nero e' alto su me, maculato d'argento a raccontar di noi attraverso gli occhi delle lontananze. Trapassati remoti che non conoscono un poi, navigano le distanze di eoni liquidi a scorrere tra le rapide dell'infinito. La mia eco e' lontana: c'e' una torre da erigere che nascosi con un dito indicandola a questa specie scarsamente umana, per salvar l'occhio assonnato distrattamente attento a non calpestar specchi. Di questo passato, che aspetto affranto su questo mondo a spicchi, serbero' memoria. Quando arrivo' il futuro, porsi la mano all'idea per trovar traccia di me. So che prima di addormentarmi, piangero' di gioia.